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Padre Renato tra i malati Covid: vivo in ospedale e porto speranza

Immagine del redattore: Parr. Santi XII ApostoliParr. Santi XII Apostoli

Aggiornamento: 18 dic 2020


Il racconto del cappellano: «Sono un compagno di viaggio per chi è solo, al di là del credo religioso. In corsia è un’esperienza straziante: il mito della scienza onnipotente è crollato con la pandemia»


CHIETI. Se non fosse per quella piccola scritta sul cartellino della tuta bianca, in cui si legge “padre Renato”, lo si potrebbe scambiare per uno degli operatori sanitari che, bardati come astronauti, combattono tutti i giorni la pandemia in prima linea. E invece padre Renato Salvatore, 65 anni, è il cappellano dell'ospedale Santissima Annunziata. Da quando è scoppiata l’emergenza Covid ha messo via la tonaca e ha indossato tuta bianca, mascherina e visiera, per portare conforto anche ai pazienti affetti da coronavirus. Ogni giorno fa il giro dei reparti ospedalieri, Covid e non Covid. Assicura assistenza spirituale, impartisce i sacramenti, dice messa, programma e mette in atto progetti pastorali per sostenere i malati e i loro familiari. In tutti i suoi i compiti si avvale dell’aiuto di un organismo, il Consiglio pastorale, composto anche da laici impegnati a vario titolo nella struttura sanitaria. «La cosa più importante e bella per un cappellano è di essere presente», dice, «stare con le persone, con tutte le persone: malati, personale ospedaliero, familiari, volontari; farsi discreto e fedele compagno di viaggio di chiunque, al di là del credo religioso o delle scelte di vita. In una parola, quando la sua umanità si incontra con quella degli altri si può costruire o ricostruire tutto, a livello individuale e di gruppo». La battaglia contro il Covid lui la combatte anche contro la disumanizzazione del percorso ospedaliero a cui si assiste «nonostante», sottolinea il religioso, «l’impegno dei tanti operatori della sanità di buona volontà».

Cappellano ospedaliero dal 2016, e anche assistente ecclesiastico dell’Unitalsi della diocesi di Chieti Vasto, padre Renato tocca con mano gli aspetti più difficili della pandemia. «Alla disumanizzazione delle strutture si aggiunge quella nei rapporti», sottolinea, «si può cadere nell’inganno di pensare che in ospedale ci sia la sospensione della legge fondamentale per ogni essere umano: il bisogno di amare e di essere amati. Il bisogno di amore lo si constata con evidenza in questo tempo di pandemia per l’impossibilità di stare accanto alle persone più care. In modo acuto esperimentano questo i ricoverati che, il più delle volte, muoiono soli: un’esperienza straziante per loro e per i familiari. Molti sono anziani, spesso non hanno o non sanno usare il cellulare, il che aggrava il distacco pesantissimo dai loro cari. Anche per queste situazioni il cappellano può fungere da collegamento, può essere presenza amica, sostegno per lo spirito».

Al momento, considera padre Renato, non stiamo ancora vivendo le difficoltà sperimentate la scorsa primavera nella prima fase della pandemia. E comunque, secondo il cappellano, c’è sempre una lezione da imparare anche all’interno delle esperienze più drammatiche come può essere una epidemia mondiale. «Questa pandemia è una sfida epocale», dice il cappellano, «e ogni sfida può rappresentare un’opportunità tanto più grande quanto maggiore è la sfida stessa. In questo momento, non siamo ancora in grado di capire dove ci sta portando, ma se cerchiamo di leggere i “segni del tempo” potremo essere meglio attrezzati per affrontare il futuro nostro e delle prossime generazioni. Stiamo sperimentando il crollo di molte illusioni di grandezza e autonomia nella gestione della nostra vita privata e sociale. Una scienza onnipotente, un progresso costante, un benessere sempre più condiviso sono solo alcuni dei miti che crollano sotto i duri colpi inferti da questa pandemia. Le domande fondamentali di ogni esistenza che voglia qualificarsi come umana tendono a riemergere nella nostra coscienza perché, alla fin fine, richiedono risposte che devono offrire un senso alla nostra vita. Questa è, pertanto, un’occasione propizia ma anche che possiamo perdere con facilità se continuiamo a correre senza una meta che dia senso e gioia al nostro cammino. Nella vita», conclude il cappellano, «si può essere vincenti solo se ci arrendiamo all’amore».


di Arianna Iannotti


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